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Perché il romanzo conta. Intervista a Guido Mazzoni

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1) Come nasce questo libro?

Teoria del romanzo non è un’opera isolata. Nasce come seconda parte di un progetto iniziato col saggio Sulla poesia moderna, ed è stata scritto insieme a un libro di poesia, I mondi . I tre testi sono intimamente collegati. Se il libro di poesie segue una logica autonoma, i due saggi sviluppano un progetto unitario: cercano di riflettere sul mondo moderno usando, come sintomo e come mezzo di contrasto, la comprensione della vita che si cristallizza nelle opere di letteratura. La frase di Adorno citata nell’epigrafe di Sulla poesia moderna riassume bene il presupposto implicito su cui si regge anche Teoria del romanzo: «le forme dell’arte raccontano la storia degli uomini con più esattezza dei documenti». In questo senso Sulla poesia moderna e Teoria del romanzo non sono opere di Literaturwissenschaft, ma tentativi di fare filosofia con altri mezzi. Il genere critico cui rimandano sono le teorie dell’arte o dei generi artistici nate nella cultura dell’idealismo tedesco. Benché il metodo e la metafisica siano completamente diversi da quelli dell’archetipo, l’intento rimane lo stesso: usare la letteratura per proporre un’analitica esistenziale e una filosofia della storia.

2) Da cosa nasce il discorso sulla teoria del romanzo? Quali premesse epistemologiche permettono la proposta di una teoria che va ad indagare un fenomeno culturale e sociale così sfaccettato?

Il libro cerca di dimostrare che, al termine di un processo che si compie fra la metà del XVI e la fine del XVIII secolo, il romanzo si costituisce come genere unitario. Si potrebbe sostenere con buoni argomenti la tesi opposta; si potrebbe pensare che, siccome il romanzo è il genere che racconta qualsiasi storia in qualsiasi modo, sarebbe vano cercare un’unità in un campo così vasto. Io credo invece che vi siano due strutture comuni a ogni testo che oggi facciamo rientrare nel territorio letterario del romanzo: da un lato la forma-narrativa (i romanzi raccontano qualcosa); dall’altro l’anarchia mimetica (a partire da una certa data, il romanzo è il genere che racconta qualsiasi storia in qualsiasi modo). In entrambe queste strutture sono rappresi dei significati. La forma-narrativa, per esempio, porta con sé una precomprensione della realtà. Ritenere interessanti le storie significa attribuire importanza a quella regione ontologica che è il proprium dei racconti in particolare e della mimesis in generale – la regione abitata dagli esseri particolari, dagli individui, dai nomi propri. La forma-narrativa possiede poi una caratteristica ulteriore: immagina gli esseri particolari come inclusi in un mondo ed esposti al tempo. Chi si affida alla forma narrativa colloca l’interessante, l’essenziale della vita in questa regione ontologica. Se ciò è vero per tutte le forme di racconto, il tratto specifico del romanzo è l’anarchia. Ma l’anarchia mimetica rappresenta anche una straordinaria conquista storica; la sua emersione fra la seconda metà del XVIII secolo e l’inizio del XIX secolo significa molto per la nostra cultura. Per esempio, è grazie a questo cambiamento di paradigma che diventa possibile raccontare seriamente, tragicamente e problematicamente la vita delle persone private. Il primo capitolo di Teoria del romanzo riflette su ciò che implicito nell’atto di narrare; i capitoli II-V raccontano come si sia arrivati a raccontare qualsiasi cosa in qualsiasi modo e cercano di rendere esplicito il significato di un simile processo. Sono queste, a grandi linee, le strutture portanti del libro.

3) Ammesso che il romanzo riesca a garantire una conoscenza delle verità umane, quali sono i modi dell’umano ai quali ha un accesso privilegiato rispetto alle altre forme d’arte?

Le opere narrative si interessano a un preciso livello di realtà: parlano di esseri particolari soggetti al tempo e collocati in uno spazio, individuati da un nome proprio, un corpo, un carattere, un costume; esseri inquieti, perché esposti al divenire e al desiderio, che incrociano le proprie vite con le vite degli altri, agendo, parlando, formulando pensieri, provando passioni, vivendo in un sistema sociale, finché lo squilibrio si placa e la storia raggiunge la sua fine. Di questo parlano le storie, tutte le storie. A differenza di altre formazioni discorsive cui la nostra cultura si affida per costruire interpretazioni del mondo (la filosofia, la matematica, le scienze naturali, le scienze umane, la poesia lirica, e così via) la narrativa incorpora, nella propria forma, le impalcature primarie della vita umana in quanto esistenza finita, individuata, situata, squilibrata. Tutti gli altri giochi linguistici hanno un rapporto di pura esteriorità con questi a priori, a cominciare dal pensiero, che espelle dalle sue movenze la natura singolare, temporale, spaziale, intersoggettiva, aneddotica, circostanziale di tutto quello che gli uomini fanno e pensano, trasformando l’esistenza particolare nel contenuto di un discorso il cui stile produce enunciati sottratti alla particolarità. Se questo vale per ogni forma di narrativa, il romanzo moltiplica la particolarità. E’ il primo genere letterario che si apre alla mimesi delle vite qualsiasi e degli oggetti comuni; è la prima formazione discorsiva che prova a mimare le forme di vita (ambienti, culture) nella loro differenza multiforme.

4) Lei fa più volte riferimento a un realismo di primo Ottocento, che mantiene una dialettica tra realismo e melodramma; e ad uno di secondo Ottocento, che ha inizio con la generazione degli scrittori nati attorno agli anni Venti del XIX secolo (George Eliot, Dostoevskij, Flaubert, Tolstoj), e che crea le premesse per la transizione al modernismo. Un qualsiasi lettore di oggi, però, sente Dostoevskij più “fratello” di Balzac, ma non meno di Joyce: posta questa premessa, in che grado di parentela siamo con Shakespeare?

Per me gli autori strettamente contemporanei, quelli che inaugurano lo spazio romanzesco nel quale siamo ancora immersi, appartengono alla generazione nata intorno al 1820: George Eliot (1819), Dostoevskij (1821), Flaubert (1821), Tolstoj (1828). Ciò che li rende contemporanei è un elemento tecnico: le possibilità narrative che i loro libri aprono sono ancora vive e praticabili. Nel secolo e mezzo che ci separa dalle loro opere maggiori, a queste possibilità se ne sono aggiunte delle altre; e tuttavia i modelli di personaggio o di trama che Eliot, Dostoevskij, Flaubert o Tolstoj hanno inventato continuano ad agire in molti romanzi dei nostri tempi. Shakespeare ha rappresentato alcuni grandi paradigmi della condizione umana: il conflitto fra la passione egoistica dell’autoaffermazione e i legami d’affetto, per esempio; o il conflitto fra la ferocia con cui gli esseri umani perseguono i propri scopi di potere e di dominio e il senso della crudeltà e della vanità universali; oppure la tragedia che gli individui sperimentano quando scoprono che le loro azioni sono irreversibili, oggettive, autonome rispetto alla soggettività che le ha generate e che vorrebbe correggerle. Come tutti i classici, Shakespeare parla a noi contemporanei perché ha saputo fissare queste situazioni archetipiche in una forma che continuiamo a prendere per buona, e che continua a generare effetti. Quando si dice che il finale del Padrino parte II è shakespeariano, per esempio, si allude al Nachleben odierno di questi schemi: Michael Corleone è diviso fra la spinta alla vendetta e l’amore per Fredo, il fratello debole che lo ha tradito e che, in virtù di una logica inesorabile, deve essere ucciso; le scelte formali dello sceneggiatore e del regista comunicano una lacerazione tragica, perché senza uscita. Ciò detto, nessun autore della nostra epoca scriverebbe mai una tragedia in versi sul modello di Shakespeare; da un punto di vista tecnico, fra Shakespeare e la letteratura contemporanea c’è un salto di paradigma.

5) Lungo tutto il percorso del suo libro è possibile rintracciare una linea di scrittori che hanno segnato la storia del romanzo dalle sue origini fino ad oggi. Facendo ciò lei ha consapevolmente trascurato altri autori molto importanti, da Sterne a Faulkner a Gadda. Se dovesse tracciare un canone del contemporaneo a quali autori farebbe riferimento e perché?

Il libro è una teoria del romanzo, non una storia. Se il romanzo è diventato quel genere che racconta qualsiasi vicenda in qualsiasi modo, scriverne la teoria significa anche tracciare linee in un territorio virtualmente illimitato – e dunque escludere, sacrificare. E’ vero che ho parlato poco di Sterne o di Kafka (mentre non credo di aver parlato poco di Faulkner). L’ho fatto per ragioni diverse. La più importante è che i capitoli dedicati al romanzo moderno si interessano al centro del sistema, non alle periferie. Centro e periferia non sono categorie estetiche: non hanno a che fare col bello o col brutto, ma con l’egemonia delle tendenze. Per me il nucleo del romanzo moderno è occupato dalle opere che cercano di rappresentare seriamente, tragicamente e problematicamente la vita delle persone come noi, cioè da quell’area letteraria che Auerbach chiamava «realismo esistenziale», mentre la periferia è occupata dalle opere che ricercano l’interessante in regioni distanti dal quotidiano e dal comune.

Vengo alla seconda parte della domanda, quella sul canone del romanzo contemporaneo. La si può interpretare in due modi: può significare «quali sono le opere che continuano a perseguire quel progetto di mimesi seria delle persone come noi che costituisce il nucleo simbolico del romanzo moderno?», ma anche  «quali sono le opere degli ultimi decenni che lei apprezza?». Per me i due insiemi non coincidono del tutto, perché centro e periferia, come dicevo prima, non sono categorie estetiche. Ritrovo il progetto di un realismo esistenziale in molti romanzi di Yehoshua, nei racconti di Carver e di Munro, in Carne e sangue di Michael Cunningham, nei romanzi di Philip Roth o di Houellebecq, nei romanzi e nell’autobiografia di Coetzee o in Le correzioni di Franzen. Interpreto i romanzi di Siti o Le benevole di Jonathan Littell nella prospettiva del realismo esistenziale, benché in queste opere ci sia anche altro. Se invece mi chiedete il mio canone personale, non posso non citare scrittori come DeLillo, Foster Wallace o Bolaño, e non metterei alcuni dei romanzi citati in precedenza sullo stesso piano di Underworld, I detective selvaggi o 2666.

6) Teoria del romanzo è anche una occasione per riflettere su alcune istanze fondamentali della nostra esistenza. Stando all’ultimo paragrafo, Sullo stato di cose presente, non esiste più una legittimazione collettiva del perché siamo qui. È come se le strutture collettive di riconoscimento del senso fossero venute meno. Se il romanzo può essere considerato, secondo la formula di Hegel, «la moderna epopea borghese», l’ideologia borghese può essere considerata una forma di legittimazione collettiva? E la posizione privilegiata del romanzo è secondo lei legata all’egemonia di quel sistema di valori?

L’idea della vita cristallizzata nel romanzo in quanto forma è indiscutibilmente borghese: individui che perseguono scopi privati ed equivalenti, immersi in un intero che nasce dalla somma sovrapersonale delle loro azioni personali, che sfugge a ogni controllo e che viene percepito come una dimensione astratta e lontana. Si creano piccole sfere di interesse, piccoli mondi relativamente separati. Per chi partecipa al microcosmo, la logica e le poste in gioco nel singolo sistema appaiono perfettamente sensate: «la vita umana – dice Thomas Buddenbrook nel romanzo di cui è protagonista – ha un significato solo simbolico; si può essere Cesare anche in una piccola città del Baltico». Per chi invece osserva il microsistema dall’esterno, come avviene nella pratica artistica dello straniamento, ciò che accade dentro ogni piccola bolla non ha un valore reale: significa solo il ripetersi di un meccanismo antropologico primario, la ricerca dell’equilibrio fra desiderio individuale e realtà, qualunque sia il desiderio che si persegue, qualunque sia la realtà che lo limita. La vita non ha Senso, nell’accezione enfatica e maiuscola del termine; ha solo una pluralità di significati regionali, ciascuno assoluto nella sua assoluta relatività, ciascuno valido nel proprio piccolo mondo e insensato altrove.

Occorrerebbe poi riflettere sul significato che vogliamo dare all’aggettivo «borghese» e sul significato storico-filosofico della middle class e della sua ascesa. Penso ad alcune riflessioni hegeliane sulla società borghese come nuova animalità, come stadio della storia in cui gli esseri umani rivendicano il diritto di esistere per sé e per i propri desideri, in un’immanenza assoluta che ripete, su un piano di complessità ulteriore, l’immanenza assoluta della vita preumana. Uno dei libri che per me hanno contato e contano di più sono le lezioni di Kojève su Hegel. Continuo a credere che l’American way of life rappresenti davvero l’ingresso in una condizione post-storica. Ciò non significa la fine degli eventi o dei conflitti, tutt’altro; significa che gli eventi e i conflitti del futuro si riveleranno incapaci di imporre forme di vita diverse da quella in cui siamo immersi, e che la metamorfosi delle forme sociali e politiche da cui la società occidentale è stata percorsa per millenni è giunta forse al suo stadio finale. La fortuna, e prima ancora la desiderabilità planetaria del capitalismo e della forma di vita americana sono legate al fatto che il capitalismo, il liberalismo, lo stato di diritto permettono di costruire piccole sfere individuali di riconoscimento, di appagamento, di autonomia. La forza che un sistema simile continua a possedere nasce da questo, e le crisi del settembre 2001 o del settembre 2008 non sembrano aver cambiato lo stato delle cose. L’American way of life intercetta un desiderio antropologico profondo, un impulso alla soddisfazione immediata, alla separatezza, alla territorializzazione che forse ha radici animali. Che tutto questo poggi su una gigantesca violenza sistemica, su rapporti di forza che condannano alla miseria o allo sfruttamento miliardi di altre persone sottopagate (il proletariato globale che, nel Terzo mondo, produce i nostri beni di consumo) o emarginate (gli esclusi), che tutto questo sia il prodotto eteronomo di poteri sovrapersonali e abbia poco a che fare con la democrazia, nel senso nobile del termine, non importa a nessuno, né crea alcuna controforza rivoluzionaria. I proletari delocalizzati non si uniranno mai; gli esclusi non vogliono distruggere la forma di vita che li emargina, ma premono alle frontiere per essere inclusi, per entrare. E che io sia in realtà un individuo seriale e omologato come tutti, che la mia vita sia uneigentlich – cioè impropria, non mia – è del tutto secondario in confronto alla certezza che questa vita impropria è tutto quello che posseggo e che mi interessa. Benché oggettivamente non mi appartenga, soggettivamente è sempre mia; per il senso comune contemporaneo ciò che conta è viverla ed essere tranquilli o felici nelle condizioni che ci sono date. Il gruppo umano egemone in questo stadio della storia – la «piccola borghesia planetaria», «la forma in cui l’umanità è sopravvissuta al nichilismo», come scrive Agamben in una delle sue pagine più famose – esiste per sé, per appagare desideri immediati e limitati, avendo lentamente depotenziato tutte le trascendenze, anche quelle implicite nelle idee laiche, illuministiche, di uscita dalla minorità, di emancipazione o di democrazia. In questo senso il desiderio acefalo e l’edonismo di massa inaugurano l’epoca della pura immanenza. Rispetto a questo fondo, i grandi ideali politico-filosofici moderni si rivelano distanti e elitari; spesso sono soltanto un flatus vocis emesso per coprire pulsioni molto più semplici e autoteliche. L’epoca contemporanea ha un volto kojèviano e tocquevilliano.



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